Pubblicazioni

 

 

 

Ore di luce strangolate da clessidre

 

 

L'autrice Franca Fabbri

 

 

Distesa su un letto di farfari / ascolto i bramìti d’amore, / i versi e i sussurri / di orgasmi silvestri. // Dalla gravida terra, / su mani devote, / attendo il parto dell’acqua.

L’apparente bonomia delle poesie di questa raccolta cela una stimolante, sensuale inquietudine: la vita, con i suoi evidenti chiaroscuri, viene vagliata con sguardo sapiente, con il timore e la libertà che caratterizzano la condizione umana e la sua imprescindibile dimensione del tempo, quella che ci rende responsabili di ogni gesto, parola, pensiero. Sì, la linea sempre faticosa, a volte schiacciante, altre volte felice e soprendente come un atto d’amore o un paesaggio sublime à la Friedrich; il tempo, appunto, che attimo dopo attimo segna il corso del nostro cammino, questa successioni di momenti preziosi e terribili è aperta alla luce (anche metafisica) nella consapevolezza di dover comunque sempre fare i conti con quelle limitazioni (nostre e altrui), con quei nodi che ciascuno di noi è chiamato ad affrontare, se non vuole correre il rischio di strangolare sé stesso e anche il prossimo che potremmo aiutare. Come osserva Marcello Tosi nella sua empatica Prefazione, in Franca Fabbri “la paura diventa speranza e la voglia d’infi nito devota meraviglia”.
Alessandro Ramberti

 

Versi sul tempo di Marcello Tosi

Sonno, sogno, specchio, sguardo analiticamente rivolto a guardare, a scrutare dentro di sé, con metodica precisione e attenzione, è divenuta negli anni la poesia di Franca Fabbri. Il meditare versi sul tempo, sulle stagioni della vita, sulla morte, il suo raccontare fatto di sogno e di evasione si è fatto dissolvenza, apparizione di un labirinto del mondo e del male, da cui cercare salvamento nel sogno stesso: “Di sonno mi nutro, / è pane / (…) nel sogno mi specchio, / c’è l’analista / mangio, bevo / e dissolvendomi / scompaio”. Un poetare che appare come il racconto di un perenne agitarsi tra sofferenze vissute, con un lutto nello sguardo da cui potersi finalmente liberare, per librarsi, come conferma l’analista: nel volo cerchi la luce, il respiro libero, senza il peso del mondo. È sempre presente il senso, il sentimento della casa, dell’ovattato silenzio rotto solo da un suono familiare ed evocatore di altre storie (“Quando al pianoforte /suona il Dottor Živago, / io divento / Lara… / Natascia... /Anna Karenina…”). Il sogno e il mistero continuano quindi a trovare il loro riparo nella certezza e nella bellezza del quotidiano. Sono le Voci dimenticate, i ricordi, gli echi contrastanti dentro di noi: il gelo dell’inverno e il tepore della casa, il suono delle campane e le voci dei morti. Per questo Franca Fabbri ama descrivere le lontananze, il magico, il mistero, gli angoli nascosti della casa e dell’anima. Ricordi, nostalgie, cose antiche (e amiche) sono come racchiuse dentro “scatole di cartone / (…) / Ne apri qualcuna, /
non sai il perché, / e la cosa esce, / rivelata”.
Vecchi motivi in cui è racchiusa ogni storia ed esperienza. Impressionistica, appassionata contemplazione del reale, oracolo e mistero che diventa parola (Delfi). Sogni, segreti, paure, da cui nascono “storie, /poesie, romanzi”, come ripercorrendo altre stanze della casa, popolate di misteriose presenze e dell’inquieta necessità di evadere: “Prendi la zattera, / cerca il vento, / esplora, conosci, sogna, / scopri l’origine e la fine” (L’avventura). Sembra di riascoltare ciò che scriveva Louis-Auguste Blanqui (L’éternité par les astres, 1872):

Quello che ho scritto in questo momento nella mia cella, l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità, sullo stesso tavolo, con la stessa penna… Tutte queste terre sprofondano, una dopo l’altra, nelle fiamme che le rinnovano, per rinascere e sprofondare ancora, scorrimento monotono di una clessidra che si gira e svuota eternamente da sola.

Il disegno interiore, l’insistita presenza, quasi come in un emblema, dei segni del tempo da decifrare, della ricerca di un’armonia vista come possibile, perché già intravista come in un sogno, la vita fatta di memorie poetiche di Franca Fabbri appaiono come un cammino di luce verso l’esterno. In essa la dimensione del ricordo porta a riconoscere il silenzio come rifugio. Muovendo con gioioso candore e amore per la vita, alla ricerca del senso e dell’origine delle cose, tra paure e attese, i suoi sogni sono comunque vissuti con fede e amore. Le sue poesie, pascolianamente volutamente dimesse, sono autentiche, germogliano da gesti e vita quotidiana: il silenzio della casa, il mare, le stagioni, vecchie soffitte. Nei suoi versi si rincorrono associazioni, stati d’animo, illuminazioni ad occhi aperti, come le vecchie scarpe, i giocattoli dell’infanzia: “Di ogni mia stagione possiedo il feticcio: / una bambola dal vestito di broccato, / le cartoline degli innamorati, / casa mia, / la vita”; “I diciotto scalini / di casa mia / portano su e giù / il nuovo, il vecchio, il dimenticato. / (…) / scrivono storie, / poesie, romanzi.”
Una poesia che vive del respiro lungo del silenzio: “ore inutili, bugiarde”, mute, che recano tuttavia l’aria buona del passato. La luce di un pensiero esprime stupore e meraviglia dell’esistente, fruga nella polvere del tempo, gratta le macchie di ruggine, mette il dito nelle crepe, nel fluire del reale. Il tempo ci afferra dalla nascita, sciupa la vita e la porta chissà dove. Pensare il tempo non significa non pensare il senso di tutto il resto. È l’orologio che corre scandendo la scoperta del destino come cammino di vita, dove esplorare, conoscere, sognare, l’origine e la fine, e perdersi nella magica atemporalità di lunghi, lenti attimi sospesi: “Ti bastano barlumi di luce / il passato”, “… prima delle nove / c’è un tempo che non è più mio? / Un tempo già morto, / sepolto nei cassetti del passato? / (…) / Lui sceglie, silenzioso, la mia vita, / come un soldato al comando / del generale Destino. / (…) / ore di luce, / frettolose, o lente, / come strangolate da clessidre, / (…) / dove affondano, dolci, gli ami degli amanti e degli artisti”.
Sentimento, speranza, intreccio di rapporti: ciò in una parola è l’essenza dell’uomo. La poesia è un essere dentro le cose, e nel ricordo, è il tempo che permane, inattaccabile, senza annientamento: “nessuno ha capito / che sono una violaciocca / una rosa selvatica / (…) / che sono candida / come il giglio che stringevo tra le mani / il giorno della «prima comunione»”. La poesia rinomina cose e rimembranze in una dimensione quotidiana eppure misteriosa. Tutto è retaggio di solitudini, esposto alla minaccia senza tempo della consunzione. L’anima poetante ritrova nella quotidianità i segni del silenzio, del pianto nostalgico delle cose: “Ho scritto della morte degli altri / con leggerezza e ironia, / ma la morte che mi riguarda / è morso nella carne”.
E poi c’è il senso del ritorno, dei luoghi perduti e amati… come le sorgenti del Marecchia che sono più misteriose di quelle del Nilo. Un rivolo d’acqua, il vento lo scoprì e lo spinse a valle… solcato da un ponte posto tra le pagine scritte, dove volano parole che, evitando di finire in un gorgo di sogni perduti, hanno bisogno di diffondere un senso di pacificazione tra sé e il mondo.
L’alba, quale mistero nasconde? Forse il mistero stesso del giorno. Come nell’evocazione poetica di celebri paesaggi romantici di Caspar David Friedrich, quale il celebre Viandante su un mare di nebbia, la paura diventa speranza e la voglia d’infinito devota meraviglia: per vivere in eterno bisogna spesso abbandonarsi alla morte. Altrove si tramuta in un gemito, in doloroso stupore davanti al mistero, come contemplando le opere scolpite dalle mani di scultori quali Ilario Fioravanti (Il compianto) ed Elio Morri, l’attesa vissuta come un’agonia (Le mogli dei marinai). Risuonano nelle quiete stanze, le note dolorose e nostalgiche di Jacques Brel: Ne me quitte pas…
Il respiro divino del mistero diventa canto della parola, litania spezzata mentre “le onde trasformano / le luci in colori”.

 

Perché si scrive? di Narda Fattori

Si scrive per lasciare la propria orma sulla sabbia che l’onda risucchierà , per inciderla sulla roccia a testimonianza di un’esistenza duratura che ha impresso un segno , e acqua e vento poco potranno per eliminarla; si scrive per scoprirsi oltre la cortina dei pensieri quotidiani , per portare alla luce istanze e presenze, accadimenti e sovvertimenti della propria esistenza. Si scrive per essere di più, per avanzare, per seguire una passione, per succhiare fino al midollo lo scheletro del mondo.
Franca scrive ormai da tanto tempo; la sua scrittura è eclettica, divertita e ironica, sentimentale e melanconica. Non saprei dire se gli scritti più riusciti siano quelli in prosa o quelli in poesia anche se un fine fil rouge li collega: il suo sguardo è sempre attento , pronto a cogliere il particolare , il colore o il tono di una situazione o di una emozione. Sono comportamenti da poeti e da prosatori, è la visione che spadroneggia , è il tempo che batte il suo ritmo.
Anche l’ironia, la delicata sensualità, che caratterizza gli scritti di Franca la rendono riconoscibile, non meno della documentata verità socio-storica che afferma.
Credo che questo sia il suo terzo libro di poesie edito e dal ricordo venato di nostalgia del “Re fioraio”, suo primo libro, che testimoniava un bisogno di andarsi a cercare e a trovare fra i ricordi, con l’uso di un lessico ricercato e “fiorito”, è passata al secondo che affronta ciò che non è eludibile, la morte, qui non temuta, compagna di ventura, irridente in alcune manifestazioni, tragica e /o pacificata.
In questo terzo libro, Franca affronta una specie di puzzle: ogni poesia è una tessera che fotografa una visione, un’emozione, un rito,…; nella vasta gamma di eventi che vanno a censire, le poesie danno l’immagine dell’unitarietà del prodotto sempre di buona qualità, non facendo mancare il quid che le contraddistingue: l’ironia , un pizzico di sensualità, una malinconia alabastrina, sommessa.
Con due libri di prosa pubblicati, il mondo ritratto da Franca è essenzialmente femminile; un femminile che ben conosce i limiti del maschile, ma che li accetta , semmai sorridendo e coglie del rapporto maschio-femmina la leggera schermaglia dove è chiaro da subito chi sarà il vincitore che, però, non infierirà mai sul vinto.
Il tempo è l’altro protagonista degli scritti: il tempo sincronico, ribaldo, memore, silente quasi fosse in agguato. Il tempo porta sempre più vicino al luogo dove si compiono tutte le attese, ma non è brutale, anzi…
La grazia propria dello stile di Franca non va confusa con il perbenismo o il laissez faire , ma svelenisce ogni situazione, alleggerisce i giorni e gli eventi . Rappacifica. In questi tempi è quanto mai apprezzabile.

 

Irmentraud Ter Veer (Poetessa Austro-olandese)

Un commento per le prime poesie tradotte : "sono leggere e nello stesso tempo profonde, bisogna leggere tra le parole. Spesso hai un dialogo con la morte, con l'aldilà. Fugacità-relatività. I paesaggi di Friedrich li fai "vedere" chiaramente, i tuoi occhi li guardano con cuore e spirito. Continuerò la lettura.


Su Ore di luce strangolate da clessidre di Franca Fabbri
FaraEditore, 2013
recensione di Vincenzo D'Alessio



Ogni qualvolta leggo una raccolta di poesie, oggi leggo: Ore di luce strangolate da clessidre della poeta Franca Fabbri, mi rivolgo l’interrogativo: perché scrivere poesie ?
Credo fermamente che la Poesia è un rimedio unico alle sofferenze, all’abisso dell’eternità che ci accomuna al genere umano e alla Natura, alla gioia di trasmettere il valore profondo della più bella e riuscita delle invenzioni umane: la parola.
Il valente critico letterario, poeta e scrittore di teatro, Massimo Sannelli ha più volte argomentato sullo Stile ostile e sul valore dell’idea rispetto allo stile: “Lo stile è vanità e l’idea è seria. (…) Diamo tutto ad un’idea. Potremmo anche morire per un’idea” (in Trentinolibero, 2013). Richiama ancora il valore insostituibile dell’idea il contributo letterario apparso sulla rivista «Forum Italicum» (2013) del professore Toni Iermano, dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, che reca il titolo “Mourir pour des idées, Eleonora e Napoli” ne Il resto di niente di Enzo Striano: “Tutti non facciamo che attendere. Mentre questa città bellissima ai nostri piedi va accendendosi di luci.”

Ho fatto queste premesse per avvicinarmi ai versi sciolti contenuti nella raccolta della poeta Fabbri, essi scandiscono cronotopi il viaggio dalla quotidianità mutevole all’assoluto regno dell’ombra di quella vita che tutto confina in pace (dall’esergo a questa raccolta). L’idea del Tempo domina e sovrasta ogni composizione. Scrive la poeta: “Temo l’orologio / che implacabile avanza, / che decide cosa farò, dove andrò, / se c’è ancora tempo per me (Che ora è, pag. 51). Ed è in questa poesia che viene ripreso il titolo della raccolta: “Così mi fa vivere / ore di luce, / frettolose, o lente, / come strangolate da clessidre” (pag. 52).
Nella similitudine dello strangolamento delle ore c’è l’immagine della stretta ampolla della clessidra dove si sforzano di passare i granelli della finissima sabbia che bene si accostano alle ore, all’operato degli uomini, all’esistenza di ogni essere vivente. La quotidianità riversata nel dialogo con il lettore. L’intimità famigliare, gli oggetti quotidiani (“le stanze, i cassetti, / il letto, le piante”) i sentimenti (“c’è qualcosa / che ricorda l’amore / nell’odio”), riversati nel rigo breve, tagliente, ricco di similitudini, metafore, metonimie (“l’aria / isterica”), antitesi (“mio marito / (…) che durante il suo funerale / suonerà / il Celebre largo di Haendel”. Una costruzione labirintica dove la personificazione del circostante, degli animali (“Sulla scogliera del mare / singhiozzano i gabbiani”), sottostà alla veridicità micidiale del trascorrere.
“Dal ponte / tra le pagine scritte / nell’acqua del fiume / vedo galleggiare / le mie” (Dal ponte, pag. 39). La lezione della scuola eleatica prende corpo nel panta rhei e si eleva con l’ausilio del testo de Il cielo in una stanza (pag. 55, La pianta del poeta) e nelle opere pittoriche solenni di C.D. Friedrich, romantico viaggiatore nel tempo.
“Un poetare che appare come il racconto di un perenne agitarsi tra sofferenze vissute, con un lutto nello sguardo da cui potersi finalmente liberare, per librarsi, come conferma l’analista: nel volo cerchi la luce, il respiro libero, senza il peso del mondo”: in questo modo definisce la poetica della Nostra, nell’introduzione alla presente raccolta, il critico Marcello Tosi.
Musica, poesia, versi dedicati alla figura femminile, bisogno costante di trasmettere le ore di luce terrena vissute con grande intensità, con spirito critico e con la consapevole ironia che governa il Tempo.

 

"ORE DI LUCE STRANGOLATE DA CLESSIDRE"

Entro nel libro nei versi
e mi investe il sorriso del Poeta
ed acquisto fiducia e mi godo
questa invenzione di bellezza.
Poesia del tatto per prima cosa
poi odore udito e vista. Cioè
mi dice Franca con coraggio.
Io ci sono perchè ho un corpo
perchè mi anima da dentro
e mi fascia attraverso le cose
una corrente musicale e viva.
Sottile amara stimolante e d' oro.
Io la mia carne e il mio ambiente
in offerta a chi mi ascolta ed ama.
Via le vesti obbliganti e false
le crinoline i monacali l' autorità.
Lasciate che le mie sentenze siano
secondo invocazione verso l' alto.
Lasciate che io faccia nobile la voce
del sangue la saliva unghia e capelli.
Così come tutti e come chi amo
io nacqui solo per un passaggio ma
nel cammino vorrei veramente essere.

ALBERTA BIGAGLI
Firenze, dicembre 2013

 

Ore di luce strangolate da clessidre

Franca Fabbri è una scrittrice assai raffinata, come notava con acutezza Annamaria Tamburini a proposito della raccolta poetica Sto consumando l’ultima casa (FaraEditore, 2010): “senza cedere mai al sentimentalismo, rischio connaturale all’argomento, non di rado, nonostante l’asciutto dettato, la parola di Franca Fabbri può strappare qualche lacrima al lettore, almeno in prima battuta”. Aprendo la nuova silloge poetica, Ore di luce strangolate da clessidre (FaraEditore, 2013, pagg. 70, euro 11,50), non si può non riconoscere anche in questa pubblicazione un'intelligente eleganza che, talora, scopre una nuova specialità, quella della sorridente ironia, uno stile che va in direzione opposta rispetto ad una banalizzazione, così frequente ormai, nell'analisi e nella riflessione sulla modernità. Prendiamo ad esempio Gente di chiesa: “Due sorelle della nonna / suore di clausura, / una cugina della mamma / madre generale delle 'Paoline', / una mia cugina / suora di 'Maria Bambina', / uno zio missionario in Africa. / Io, / che recito / il rosario / un po' in latino / un po' in italiano / un po' a vanvera”. Lo stile con cui si raffigura questo quadro di famiglia ha il tono, lieve e prosastico, del miglior Montale: la prosa innerva la poesia e nello stesso tempo la scansione metrica delle parole rende il tutto molto più profondo di quanto potrebbe essere la stessa espressione se redatta attraverso un testo in prosa. Come scrive Marcello Tosi nella bella introduzione: “Il meditare versi sul tempo, sulle stagioni della vita, sulla morte, il suo raccontare fatto di sogno e di evasione si è fatto dissolvenza, apparizione di un labirinto del mondo e del male, da cui cercare salvamento nel sogno stesso... È sempre presente il senso, il sentimento della casa, dell'ovattato silenzio rotto solo da un suono familiare ed evocatore di altre storie... Le sue poesie, pascolianamente volutamente dimesse, sono autentiche, germogliano da gesti e vita quotidiana”. È proprio questa quotidianità a dare un senso profondo, veritiero, ad espressioni che in altri scrittori hanno spesso il sapore, invece, della pagina, del libro che nasce da altri libri e ai libri si rivolge. Questo è vero persino quando le poesie esplicitamente nascono da altri testi, o da altre opere, come la prima lirica della sezione I paesaggi di Friederich, dove si fa riferimento al grande pittore Caspar David Friederich (1774-1840), rappresentante del Romanticismo: “mare di nebbia / aguzze cime di ghiaccio / alberi solenni / ruderi di cattedrali / di cimiteri // figure umane / guardano, / sgomente // alto / e solo, / il Cristo, / appeso al freddo // e laggiù / la misericordia di una luce”, dove voglio sottolineare la forza espressiva di quel Cristo “appeso al freddo”, che con pochi cenni tratteggia un dramma con notevole efficacia. L'opera viene presentata il 25 gennaio a Savignano, presso il centro sociale Casadei, alle ore 21, dall'autrice e da Marcello Tosi.

Paolo Turroni

 

29-11-2019 - Premio "LEANDRO POLVERINI" - Anzio (Roma)

L'autrice con le sue immancabili peculiarità, le sue pecche, i suoi contrasti narra l'incidenza onirica e solipsistica di un attraversamento lirico che affonda nell'agognato riflesso cosmico la sua parte di luce, e ne indaga l'immaginario di un campo magnetico di rara perfettibilità che mostra aspetti fiammeggianti e crude nebulose nella rappresentazione ineludibile dell'esistente. Un poetare investito dall'assurdo, che non di rado declina il grottesco e quasi sempre l'isolamento, l'impotenza di raggiungere l'intenzione originaria.

Il presidente della giuria
Luciano Catella